di Manuel Ongaro
Immensa solitudine,
Che del romantico spirito
Hai intorpidito il cuore,
Non sei poi così misteriosa.
Ti conosco da cima a fondo
Un lungo corridoio
– Nero di pece e sporco e umido –
Costellato di eterne porte
Dalle quali sfilano suoni angoscianti,
Affoga, e senti l’eco dei tuoi passi
Armature – vuote – dagli occhi di fuoco
Che sorvegliano l’ingresso, giudici severi,
Sbattono le loro lance a terra e le incrociano
Vietando l’accesso a chi vuole entrare
O a chi vuol fuggire
Neri antri – in quella prigionia,
Castello impenetrabile –
Ospitano creature crudeli
Che accolgono caldamente l’ospite,
E lo riempiono di pugni nello stomaco
Immobilizzato puoi respirare,
Forse a malapena resistere,
Mentre senti che il soffitto
E le pareti di grigi mattoni
Si fanno sempre più strette.
Ora giaci, faccia a terra,
Sul tetro pavimento,
Sempre più schiacciato
Dalla claustrofobica stanza grigia,
E alzarsi non sembra un’opzione
Puoi provare ad urlare
Mentre volano sangue e denti
– Stoccate dritte ai polmoni –
Ma sentirai solo l’eco della tua voce
Che rimbalza sulle pareti vuote
Intanto, continua
Quel chiassoso strepitio di voci sconosciute;
Ma affogare, fra le risa e gli insulti, é meglio
Che lottare disarmato, contro l’esercito
Che incombe da fuori e da dentro
A una morte che non si fa sentire,
non importa quanto urli

